MIGLIERINESITA’
LA PACCHIANA
Il vestito delle donne, da “pacchiana”, solo recentemente ha attirato l’attenzione degli estimatori della tradizione, quando il rischio del suo disuso da ipotetico è diventato realtà. Difatti oggi solo una piccola parte di donne anziane continuano a indossarlo gelosamente, mentre in qualche occasione di circostanza viene rispolverato dalle giovinette, come indumento folcloristico, ricercato, anacronistico, fuori tempo perché sganciato dalla vita. Fra qualche anno sarà solo un ultimo ricordo di un modo di essere, di vivere, di una cultura definitivamente da coniugarsi solo al passato.
Inizialmente era un vestito povero, senza particolari abbellimenti. Dopo la metà del ‘700, con una migliore qualità della vita e un maggiore benessere, disponendo di stoffe e acquisendo nuove tecniche di ricamo o di lavoro all’uncinetto, ha assunto quella caratteristica che oggi noi ammiriamo, divenendo i vari pezzi una regola fissa e non un fatto casuale dettato dalle necessità. Diventa quindi un vestito complesso, poco funzionale ai lavori di una volta che del resto non impegnano più la donna come per il passato.
Vediamo dunque i vari elementi, nella consapevolezza di consegnarli alla memoria futura:
1) a cammisa: camicione lungo, bianco, con maniche molto ampie dal gomito al polso, terminanti con un “riccio”, lavorato all’uncinetto o intagliato, ed un altro “riccio” al collo.
2) u jippune: corpetto particolare di velluto o di raso nero, con maniche al gomito abbellite di fiocchi molto grandi (e nnocche) che possono essere di raso o di stoffa colorata.
3) u pannu: detto così perché la stoffa è di panno rosso. Striscia molto larga di panno rosso da indossare dal seno in giù sopra “a cammisa” e sotto “u jippune”, bordato sopra e sotto la stoffa generalmente uguale a quella delle “nnocche do jippune”.
4) u subbriattu: gonna molto ampia, fatta a piegoline, di colore blu o nero con fondo bordato come “u pannu”, di cotone pesante, indossato in estate.
5) a gunnella: è come “u subbriattu”, ma di flanella leggera, da indossare in inverno.
6) u sciallu: scialle triangolare bordato di frangia in tinta, di raso o vellutino di vario colore, da indossare sopra “u jippune”.
7) u fhadile: grembiulino di raso o velluto nero, intagliato, ricamato o bordato di pizzo in tinta; s’indossa sopra “u subbriattu” o “a gunnella”.
8) u mandile: è il velo che può essere di seta o di organza, di colore nero e si mette in testa, fermato da una spilla e due mollette sull’acconciatura particolare dei capelli: “e chiome” davanti e “llì corna” dietro, fermati da pezzi di fettuccia.
– “e chiome”: capelli cotonati ai lati e gonfiati;
– “ì corna”: lunghe trecce raccolte insieme ai lati della testa.
9) u mancale: ampia sciarpa con frange; si mette sulle spalle e può essere di velluto nero, di lana nera o di seta scozzese, detto “all’usu ‘e Trualu” (secondo l’uso tiriolese).
Il vestito da sposa ha queste varianti:
1) a cammisa è bianca;
2) u jippune è di raso celeste, azzurro o rosa;
3) u pannu è di panno rosso;
4) a gunnella è di raso celeste, azzurro o rosa;
5) u sciallu non si usava. Al suo posto si indossava un riccio molto largo in pizzo bianco bordato celeste, azzurro o rosa;
6) u mantisinu, grembiulino di raso celeste, azzurro o rosa;
7) u mandile, il velo di tulle bianco.
Fino agli anni trenta, da “pacchianelle” erano vestite anche le bambine piccole
La non funzionalità del vestito ai tempi moderni ha indotto prima le giovani, poi anche le più grandi a dismetterlo, usando i comuni abiti civili. Ha influito in maniera determinante al cambio, la grande possibilità di spostamento dovuta all’emigrazione in Italia e all’estero. Anche le anziane hanno incominciato a prendere treni ed aerei per cui è sembrato obbligatorio cambiare gli usi locali, anche perché nella cultura della massificazione e della uniformità, c’è poco posto per la diversità.
Le poche donne che ancora lo indossano hanno quasi un legame feticista con il proprio costume che, soprattutto il più bello (generalmente quello della sposa) deve accompagnarle anche nell’ultima dimora.
I MASTRI MIGLIERINESI
Una tradizionale “bandiera” di Miglierina, che si sventola giustamente con orgoglio, è quella di un gruppo di artigiani che, tra la metà del 1700 fino agli inizi del 1900, hanno operato in paese e hanno saputo imporsi in tutto il territorio della provincia di Catanzaro, per la qualità del loro prodotto, sia dal punto di vista tecnico che artistico. Sono ricordati con la denominazione di Mastri Miglierinesi.
Possono essere classificati in tre settori: mastri del legno, mastri armieri e mastri stuccatori e “babbari”.
Per quanto riguarda i primi, possono ancora ammirarsi in case private mobili lavorati con lo scalpellino, intarsiati con figure geometriche o con motivi floreali e animali. Peccato che il di più si è perso, magari svenduto col baratto di qualche mobile di serie e in formica, o perché mal ridotto e bruciato. Anche gli stalli del coro della chiesa di Santa Lucia e le due congreghe sono stati distrutti. Comunque rimane ancora qualche esigua testimonianza che è riuscita a superare il tempo e la moda.
Purtroppo per quanto riguarda gli armieri, proprio per la particolarità del loro prodotto, non ci è possibile nessuna verifica, se non la classificazione delle famiglie e delle persone che erano impegnate nella fabbricazione artigianale di armi. Quello delle armi era un settore che economicamente tirava bene, sia per il fabbisogno interno che per le richieste esterne. Accanto al letto, magari vicino a qualche immagine religiosa, a portata di mano c’era spesso il fucile pronto per l’uso. Non bisogna poi dimenticare che con gli inizi dell’Ottocento il fenomeno del brigantaggio si risveglia e si sviluppa in maniera considerevole e quindi ai nostri artigiani non mancava certamente il lavoro, considerando anche l’uso della caccia favorita da un’abbondanza di selvaggina che popolava i boschi intorno al paese. I mastri armieri non fabbricavano solo armi erano in grado di confezionare anche delicati monili in metalli preziosi (collane e orecchini) tipici della cultura del tempo di cui si adornavano le giovani donne soprattutto le spose.
Ma i mastri più famosi sono certamente i decoratori, gli stuccatori e i “babbari”.
Nella loro casa c’era il forno per la cottura della varia produzione di statue sacre (per lo più) e profane, capitelli, decorazioni varie, ecc. Naturalmente si servivano di forme, di stampi, da loro stessi approntati.
Molto bella a tale proposito è la pala dell’altare maggiore della chiesa di Santa Lucia in Miglierina raffigurante la Fuga in Egitto: allo sfondo di maniera, tipicamente egiziano, fanno da contrasto i volti popolareschi e contadini di tre personaggi della Sacra Famiglia (la Madonna, San Giuseppe e il Bambinello) senza dimenticare naturalmente l’asinello.
Segno evidente dell’opera dei Mastri Miglierinesi sono le analogie tra le facciate della Chiesa di Santa Maria di Miglierina e quella di Tiriolo, con relative statue ornamentali; la volta della chiesa di San Giuseppe ad Angoli e quella di Santa Maria di Miglierina, l’altare maggiore della chiesa parrocchiale di Santa Lucia si ritrova, in scala ridotta, in una cappella cimiteriale sempre a Miglierina.
Il materiale usato è molto povero perché è un impasto di stucco con un’anima di ferro e di legno. Questo naturalmente ha portato molte opere al deterioramento soprattutto quelle esterne a causa delle intemperie o a trascuratezza di vario genere.
In segno di riconoscenza per il lustro dato al proprio paese con la loro opera artigianale, Miglierina ha dedicato una strada ai Mastri miglierinesi testimonianza anche che, nella memoria collettiva, è vivo il ricordo di questi antenati laboriosi e ricercati.
I MASTRI GUZZI (O)
Fra tutti i mastri i più famosi e conosciuti sono i Guzzi impegnati nei lavori edili ma soprattutto in quelli decorativi.
Per quanto riguarda i lavori eseguiti e il genere, oltre alla tradizione orale che, come si sa spesso è viziata, si conservano due agende di lavoro manoscritte certamente da un Guzzi dove a partire dal 1862 fino al 1900 sono annotati i lavori eseguiti, le località, i tempi, il costo e spesso anche il genere di lavoro. Non sono esaustive di tutti i lavori eseguiti in detto periodo e oltre. Mancano i lavori fatti a Miglierina stessa e nelle vicinanze, come Amato, Tiriolo, Angoli, Serrastretta, San Pietro Apostolo. Curinga, fra tutti i paesi, è stato quello dove a più riprese e per più tempo ha chiesto la prestazione d’opera dei nostri mastri, certamente grazie anche alla disponibilità di mezzi finanziari delle due congreghe: dell’Immacolata e del Carmine e per la notorietà che i Guzzi si erano meritata per precedenti lavori. L’opera dei Guzzi non era richiesta solo per lavori riguardanti chiese ma anche per palazzi, come quello arcivescovile di Catanzaro, o la scalinata del Palazzo della Prefettura o la facciata del palazzo “Serravalle” o di quello del sig. Lavecchia sempre in Catanzaro. Sfogliando le agende di lavoro, a partire dal 1862, i lavori sono stati eseguiti nelle seguenti località: Curinga, Decollatura, Girifalco, Borgia, Catanzaro, Cortale, Accaria, Maida, Sellia, Isola Capo Rizzuto, Gimigliano.
LA BELLA “PERNA” E IL MURATORE DI MIGLIERINA SUO PRINCIPE AZZURRO
Un amore come tanti ma non a lieto fine. L’episodio è riportato dal Bruni, nella sua storia di Serrastretta.
E’ una tradizione orale (non datata) che si collega al ruscello di nome “Perna” che la leggenda dice abbia attinto da una bellissima donna, soprannominata “perla”, “perna” in dialetto.
La ragazza di cui non viene tramandato il nome di battesimo, si era innamorata di un muratore di Miglierina (anche lui senza nome) che lavorava a Serrastretta nella chiesa dell’Annunziata.
L’amore andò oltre e la ragazza rimase incinta. La madre tenne nascosta la cosa al marito e al figlio e pretese dal muratore di Miglierina la riparazione con il matrimonio. E’ tale era anche l’intenzione del giovane che ritornò a Miglierina per preparare i documenti necessari e sistemare la faccenda al più presto per evitare scandali.
Nel frattempo però la voce si diffuse a Serrastretta e arrivò anche alle orecchie del fratello della giovane che ritenne disonorato il buon nome di famiglia e decise di ripararlo con il sangue.
Un giorno in cui la giovane sorella si trovava sola al ruscello per il bucato fu aggredita selvaggiamente dal fratello che, presala per i capelli, la sgozzò, raccogliendo il sangue nella marmitta che la sfortunata giovane aveva portato per riempire d’acqua.
Naturalmente dopo questo atto delittuoso e sproporzionato alla mancanza dei due innamorati, il fratello si diede alla latitanza e tutto il paese rimase allibito e fortemente impressionato.
Il corpo della giovane fu composto e seppellito, come si usava, nella chiesa dell’Annunziata. Il fidanzato muratore, sbrigate le pratiche e ignaro dell’accaduto, fece ritorno a Serrastretta felice di sposare la bella innamorata. Ma grande fu il dolore quando apprese della tragica fine del suo amore.
Chiese e ottenne dal sacrestano di dissotterrare il cadavere che coprì di lacrime. Adornò la sua donna dei doni che aveva portato con se per le nozze. Le coprì il bellissimo volto con un panno bianco perché la terra non lo deturpasse e continuando a baciarlo e a bagnarlo di lacrime, rimase anche lui senza vita colpito dall’immenso dolore. Così se il destino non permise di essere uniti in vita li unì invece nella morte.
La fontana e il ruscello da allora presero il nome della sfortunata ragazza “Perna” che fu travolta dall’amore per il giovane muratore di Miglierina.
IL BRIGANTAGGIO: GIUSEPPE FHACIUNE
Sia pure in modo trasversale anche Miglierina è stata interessata al fenomeno del brigantaggio. Nella memoria popolare degli anziani è uno dei temi ricorrenti, nello stesso tempo sbiaditi, confusi e fortemente arricchiti dalla fantasia passati alla leggenda soprattutto per le “gesta” di un certo Fhacione che, nella metà del 1800, si era imposto al rispetto, all’attenzione o meglio alla paura dei paesani e dei forestieri.
Il paese offriva facilità di nascondiglio nel vicino e impenetrabile Monte Portella (al centro di una vasta area di azione) o di dileguarsi fulmineamente lungo i dirupi che portano alla gola dell’Amato. A Miglierina, sotto la località, denominata “Cerasa”, proprio a ridosso dell’abitato c’era la grotta detta appunta “dei Briganti” per l’uso che se ne faceva.
A Miglierina il più famoso, non l’unico brigante, è stato Giuseppe Guzzo, soprannominato “Fhaciune” (Faccione) da non confondere con un altro dallo stesso soprannome ma dalla diversa identità (certo Francesco Godino) operante a Cosenza, Rossano e Castrovillari.
Il nostro Fhaciune era nato il 5 luglio 1825 da Antonio e Angela Torchia. Il 25 giugno 1846 sposa Caterina Pallone da cui ha diversi figli, tra cui Rachele, nata il 14 novembre del 1853 e conosciuta dai più anziani.
Era solita ricordare che il padre si era preposto di raggiungere quota 40 di omicidi e poi mettersi in “pensione” ma arrivò solo a 39 perché il 40° fu lui!
E’ superfluo ribadire che quanto di lui si racconta in paese (in realtà episodi di minor conto rispetto ai delitti compiuti con la banda cui era aggregato) non ha riscontri oggettivi o, quanto meno, è confuso in rapporto ai nomi e ampliato in quanto a portata.
Si racconta che un giorno due donne, andando a “frasche”, a raccogliere la legna per il fuoco, si scambiavano opinioni su Peppe Fhaciune. Una infierisce fino a dire “Io vorra avire ‘a capu e Peppe Fhaciune intra u fhadile”, l’altra invece cerca di giustificarlo affermando che a loro non aveva fatto niente di male anzi per lei era bravo. Peppe, nascosto dietro una “troppa” (un cespuglio) ascoltava tutto e ad un certo punto viene fuori, premiando la sostenitrice con legna e soldi e riempendo l’altra di lividi su tutto il corpo.
Un’altra volta Fhaciune si trovava invitato a pranzo dalla famiglia “Carrucci” e, mentre si mangiava, andò un tizio che a nome di Peppe Fhaciune, esigeva delle soppressate. -”U vidi cumu venenu e m’apprettanu. Menu male ca staju mangiandu cu vui, sinnò un m’averrenu cridutu. Pue dicienu ca signu malu!”. Informandosi poi della persona che era andata a estorcere a nome suo, l’aspettò nelle campagne, sopra l’attuale cimitero, in zona detta “Acqua Fridda”, gli tagliò l’orecchio e, mettendoglielo in tasca: – “Portalu a mammata” – gli disse – “mu to frije e ppè ssa volta ringrazia Ddio ca ‘un t’ammazzai!”.
L’anziana figlia Rachele, quando si sentiva infastidita, era solita ripetere: “Lassatime stare ca signu higlia e chillu sangu ‘mbalenatu!”.
In seguito la tradizione di famiglia fu raccolta da un nipote che portava lo stesso nome del brigante e normalmente si sono confusi i fatti dell’uno con quelli dell’altro senza tener conto di luoghi, tempi e uomini diversi.
Giuseppe Fhaciune, oltre ad agire in proprio, con vessazioni nei riguardi degli abitanti di Miglierina, si era aggregato a una banda molto più potente, agguerrita e organizzata che faceva capo a Diego Mazza di Serrastretta rimasto capo assoluto dopo la morte del collega Rosario Gigliotti sempre di Serrastretta.
Le angherie della banda ebbero vita breve. Una parte dei suoi componenti furono arrestati, altri uccisi tra questi anche Giuseppe Fhaciune.
Anche sulla sua morte la tradizione orale è contraddittoria e confusa. Si parla di Gimigliano, dove veniva indicato un masso su cui gli fu mozzata la testa; de “Cavune e Fhaciune” dove il brigante, legato dai testicoli, fu trascinato da Tiriolo verso il fiume Amato e via dicendo… Un dato è comunque certo: non è morto a Miglierina, né vi è stato seppellito, perché non c’è nessun riscontro nel registro parrocchiale dei defunti di quegli anni.
UN RICORDO AI MIGLIERINESI CADUTI NELLE DUE GUERRE
lontano dalla loro piccola terra e dai loro affetti più cari
I loro nomi sono:
Prima guerra mondiale
Arabia Bruno fu Santo
Esposito Gennaro di Antonio
Fabiano Santo fu Antonio
Guzzi Agostino fu Carlo
Guzzi Angelo di Tommaso
Guzzi Ignazio di Gregorio
Guzzi Pietro di Santo
Mazza Giuseppe fu Francesco
Mazzei Giuseppe di Tommaso
Mazzei Pasquale fu Pasquale
Pallone Antonio di Pasquale
Pallone Antonio fu Francesco
Pallone Francesco di Giuseppe
Tomaino Antonio di C.tta
Torchia Tommaso di Antonio
Seconda guerra mondiale
Bruni Tommaso di Francesco
Cappellano Antonio di Francesco
Cianflone Agostino F.T. di T.so
Critelli Giovanni di Bruno
Graziano Francesco fu Pasquale
Guzzi Antonio fu Tommaso
Mazza Antonio fu Giuseppe
Pallone Antonio di Domenico
Pallone Francesco di Giuseppe
Scerbo Saverio fu Giuseppe
Scalise Pasquale fu Pasquale
Tallarico Tommaso fu Antonio
Torchia Agostino fu Giacomo
Trapasso Raffaele di Domenico
Torchia Gregorio di Domenico
Torchia Gregorio di Domenico
Torchia Tommaso di Agostino
Dispersi
Critelli Giuseppe fu Antonio
Raffa Giuseppe di Michelangelo
TORCHIA AGOSTINO (fratello di mio nonno Tommaso)
nato a Miglierina il 23 maggio 1923 – morto a Altengrabow il 10 giugno 1944
Il 21 aprile 1995 i resti mortali di Agostino Torchia, caduto nella seconda guerra mondiale, facevano finalmente ritorno in Patria nel piccolo paese che aveva lasciato giovanissimo nella speranza di farvi ritorno e di poter riabbracciare i familiari, gli amici, di rivedere i colori della sua terra e riascoltare i suoni dei campi con lo scampanio e il belare delle mandrie al pascolo.
I 51 anni dalla sua morte ad Altengrabow (nell’ex Repubblica Democratica Tedesca) non hanno intaccato l’amore, l’ammirazione, il rispetto, la devozione dei suoi concittadini che, in piazza della Costituzione con commozione l’hanno accolto tra applausi, lacrime e musiche patriottiche intonate dalla banda locale “G. Verdi”.
Il sindaco nel discorso di saluto, ha sottolineato l’importanza dell’evento che obbliga la comunità alla riflessione e alla tutela di tutti quei valori per i quali si è lottato fino al sacrificio della vita: unità nazionale, libertà, pace, patria, istituzioni, rispetto della dignità dell’uomo; valori per i quali ognuno deve sentirsi impegnato con onestà, solidarietà e con il contributo fattivo e responsabile. Solo in questo modo oggi il sacrificio di chi è caduto non è reso vano.
La cassetta con i resti mortali di Agostino, avvolta nel tricolore, è stata portata poi in corteo nella chiesa parrocchiale di Santa Lucia dove è stata celebrata la santa messa di suffragio.
Accogliendo i resti mortali di Agostino Torchia la comunità ha inteso stringere a se, in un ideale abbraccio, tutti gli altri caduti che purtroppo rimangono lontani, in luoghi ancora sconosciuti.
ALCUNE PREGHIERE
Oggi c’è un’attenzione, un interesse diverso nei confronti delle espressioni religiose popolari. L’interesse è dovuto non solo a un fatto folcloristico, ma alla cultura della riscoperta delle peculiarità, della tutela della diversità, intese come espressione di arricchimento, di pluralismo.
A Miglierina preghiere e canti dialettali tradizionali sono conservati solo a livello di devozione personale, anche perché limitati a una precisa fascia di età di donne anziane. Confrontando con testimonianze esistenti in altre comunità si può vedere come non siano del tutto originali: evidentemente tali espressioni circolavano nel territorio ed erano favorite perché supplivano in un certo modo all’impossibilità di apprendere direttamente le cose di Dio, con la lettura e lo studio personale, dato l’alto tasso di analfabetismo esistente. Degli stessi canti ci sono piccole variazioni da persona a persona e, poiché sono tramandati oralmente da nonna a nipote, nei vari passaggi si sono avute o delle omissioni o varianti non sempre logiche e non perfettamente ortodosse.
Alla Madonna
Bona sira Madonne belle
vui chi siti inthra ‘ste conicelle
mò chi passu ve salutu,
Madonne mie, dunatime aiutu
‘Ntra ssa cona ccè stà na gran Signura
illa Madonna u Carminu se chiama
che ne cce circa grazie cci ‘nde duna,
c’ha llu core fherutu cce lu sana.
Ed io Madonna ti nde circu una:
s’anima ‘mparadisu e llu cuarpu chi te ama
Alla gamba dà Madonna
cce ligaru ‘nà bbella rosa,
‘na stilla ‘ntuarnu ‘ntuarnu;
fhamme a grazia, tu Madonna
ca la fhai ppe ccarità
bona sira a tthe Madonna
ca de l’angili Tu si ‘ddorna,
de lu cialu, tu si rregina,
io te lassu la bbona sira
Maria Carmilitana
rispunde a cchi te chiama,
Maria te chiamu io
e succurre alli bisuagni mie.
Ogne grazia chi vulimu
jamu alla vergine ca l’avimu:
de lu cialu calata sia de la Vergine Maria.
A Gesù Bambino
Mbumbinelluzzu e supra l’ataru
tu fhai l’amuri ccu l’anima mia:
tu me chiami ed io nun piagnu,
c’aju peccati assai, però me spagnu;
de li peccati mie nun tinde lagni
me llavi e minde puarti allu tue regnu
Mbumbinelluzzu chi vai alla scola,
mamma che chiama e la missa te sona.
Threntathrianni curuna de spine
cruce e catine all’amatu Gesù.
Duve pusasti li santi peduzzi
cce nesce ‘nna troppa de vasalicò.
E li panni e li pannizzi
a Madonna ccu li thrizzi, alli thrizzi ‘ncannuliallu
cce stavia lu mbumbiniallu.
U mbumbiniallu supra l’ataru tutti l’angili cantaru
e ccantaru ppè bbona sia
bbiallu fruttu chi fhice Maria
e Maria cc’era allu cantu
cce deze nnu pocu de cunzulamiantu
quandu se aza lu calice santu
u Santissumu Sacramentu.
Alli piadi e’ san Giuanni
ce ‘amprarunu chilli panni
chilli panni e chilli pannizzi cchi su bialli chilli thrizzi
chilli thrizzi ‘ncagnulialli,
ce pusarunu u’ bumbiniallu
ce pusarunu supra l’ataru tutti l’angili cantaru
e cantaru ppe’ bbona allegria
biallu fruttu chi fhice Maria.
Il Rosario di Maria
Amu dittu lu Rusaru ‘ncumprimentu
e ll’ amu dittu ccu lla litenia
và ‘mparadisu chi cce minte tiampu,
se gode lle bellezze de Maria.
Maria ch’è bbera rosa e bberu ‘nguiantu
chi sempre prega llu veru Missia
u n’ha bastatu cchiù lu sentimiantu
si cchiù sapera, cchiù dire vurria:
Evviva lu Rusaru de Maria.
Sacratissima Regina, chi de grazie ‘nde si cchina,
te presiantu stu Rusaru ch’amu dittu nui stasira;
si parola cce mancherra, mancamiantu nun cce fho e ssi mancamiantu cce, ce lu viani a perdunare.
Rispundiu nà peccatura: “ca Maria nu n’annanduna”.
E Maria rispunde e dice: “mancamiantu nun ci ndè
e si mancamiantu cce, ce lu viagnu a perdunare”.
All’ura do murie manda a n’angilu accumpagnare;
o angilu de Ddio chi si bberu amicu mio,
accumpagname stanotte, nu mu muaru e mala morte, accumpagname a ddia, nu mu muaru e mala via, accumpagname in eternu, nu mu muaru e bbaiu all’umpiarnu.
San Dumunicu u viatu ssu Rusaru a ttie fho datu,
de Maria la Verginela tutta pura e tutta bella,
tutti quanti l’adoramu, tutti assieme la pregamu,
a Gesù ppe’ nostru pathre, a Maria ppe nostra mathre, stamu sempre’ncumpagnia, Gesù, Duminicu, sant’Anna e Maria (2 volte)
Grazie Madonna mia do Rusaru,
divotamente a ttie voagnu a pregare,
avanti alli tui piadi ‘dinocchiuni
cumu nu peccature a ddimandare
a grazia chi io te circu me cunciadi:
tu mathre de Ddio chi la pue fhare.
Nuastru Signure fhice mele e manna
fhice la quarantana notte e ddia,
pigliamu le preghiere de sant’Anna,
le lacrime de Piatru e dde Maria,
mu me la stipi a cchille glorie sante
fhina alla fhine de la morte mia.
Evviva u Rusaru de Maria
e sempre sia lodata a Regina ‘ndolerata (o ‘mmaculata) (2 volte).
E sempre u nome sia de Gesù e de Maria.
Per trovare marito
Sant’Antoni mio benignu
tanta brutta nun cce signu
nugna e dota a puazzu avire,
tu lo sai cchi vuagliu dire.
Al mattino
Ràparate core mio, chiusu nun stare
ca Gesù Cristu cce vorra bbenire,
nu nuavu liattu cce vorra ccunzare
de rose e iuri ncruce stare,
ccu sti mie grandi peccati
nun me sacciu cumpessare,
nnè ccu priavuti e nnè ccu monaci,
nnè ccu papi e cardinali
e cumpessame tu Ddio,
tu chi sai u core mio;
amme aspra penitianza,
tu chi sai la mia coscianza.
O santu pathre me cumpiassu a Ddio
ccu san Piatru, san Paulu,
ccu san ‘mPranciscu e Paula.
Trhi cose me dicia:
cumpessiune, cumunione, uagliu santu,
vita eterna e ccosì ssia.
Signure, quandu me liavu la matina
me cumbenera penitianza fhare
da sira fhinca alla matina,
sempre u nume tue vorra lodare.
O Ddio ca fhice juarnu,
nu salutu te vuagliu mandare:
a Gesù sacrementatu
mu me mandi fhorza e aiutu,
mu me libbari e ogne peccatu.
Prima di dormire
Ccu Jesu me curcu, ccu Jesu me liavu,
staviandu ccu Jesu paura u’ndaiu.
Si vene lu nimicu ne fhacimu e pruteste
ppe mmò e ppe tandu u mundu e purpità.
O Angilu mio custode chi ‘ncialu me fhai u liattu,
corregge ss’anima mia e t’a consigliu
e guarda ogne perigliu e mundu ‘ngannature
e lume tantature e mio nemicu.
Stu cuarpu durmiandu, stu cuarpu pensandu
aiu e murire, Gesù mio, e nun sacciu quandu,
sacciu a curcata, nun sacciu a levata,
Gesù Cristu mio, ss’animella mia
Te sia raccumandata.
Me curcu inthra ssu liattu
a Madonna inthra stu piattu,
alli piadi san Michiali,
allu cantu u Spiritu Santu,
alla via a Biata Vergine Maria;
e mintimu a capu a durmiere e l’angili chiamare
e Sant’Anna n’è nanna, Gesù Cristu n’è Pathre,
l’angilicchi ne su frati;
mentre ce avimu s’amici fhidili,
fhacimune a cruce e jamu a durmire.
Aiu chiusu a porta mia
ccu lu Mantu de Maria,
ccu la chiave e Salamune,
mio carissimu Signure.
U mme sacciu cumpessare
nnè ccu priavati e nnè ccu monaci,
nnè ccu papi e cardinali.
Sulu ccu ttie, Signure mio, e cumpessame tu, o Dio,
tu chi sai u core mio
amme aspra penitenza,
tu chi sai la mia cuscianza.
Io me curcu ccu bon Gesù,
sangu de Cristu cumbogliame tu.
Durante il cammino
San Giuseppe lu maggiure
ncuallu purtau a nuastru Signure
u purtau fhina a Nigittu,
aiuatame tu a ssu passu strittu.
Oh cchi bella cumpagnia,
caro Gesù, Giuseppe e Maria.
Quello impossibile
L’annamurati mie sù threntanove,
unu cci nde manca ppe quaranta.
A sira e ccuntu sempre cumu l’ova,
chillu chi vuagliu io sempre cce manca!
Per fare una buona confessione
Cinque cose bone: samina e cuscianza,
dulure dei peccati, fhermate prepositu u n’offendere cchiù Ddio,
dire tutti i mie peccati allu cumpessure
pphe fhare nà bravissima penitenza.
Per i defunti al cimitero
Bon thruvati ripusanti,
ve salutu a ttutti quanti
e nun sacciu quantu siti,
requem eterne a cchiù chi siti.
Vui siti stati, nui simu,
duve siti, nui venimu,
tutti llùacu ne ricuglimu.
Requiem eterna donas loro
et lupe perpetua lus a ttei,
requ staviti ‘mpace amen.
All’angelo custode
Uarvicu u fhucu, thri angili su lluacu,
thri angili de Ddio, tutti thri allu cantu mio.
Angilu mio, custodiu mio,
discacciamilu ssu nimicu mio,
ca nun me lassa l’esamine fhare,
ca sun te priagu, Signure Ddio,
ca ‘mparadisu me lassu purtare.
TRA FEDE E MAGIA: L’AFFASCINO
Il profondo senso religioso dell’animo miglierinese ha avvolto, si può dire, la vita degli abitanti, accompagnandola dall’alba al tramonto, dall’infanzia alla vecchiaia: una religiosità non disgiunta da una impostazione fatalistica delle cose. Tante sono le testimonianze che la rivelano: le case piene di immagini sacre, le “cone” disseminate per le campagne, gli “obblighi” imprescindibili nei riguardi di date, luoghi, oggetti, appuntamenti, santi…
E’ difficile individuare la linea di demarcazione tra fede e magia: i santi vanno bene… ma è meglio non sottovalutare anche tutte qelle credenze che hanno origine nella notte dei tempi!
Così, accanto al Crocifisso e alla palma benedetta, ci può stare anche un ferro di cavallo, un corno, il gobbo, ecc. contro il malocchio e l’affascino.
Per quanto riguarda l’affascino poi bisogna stare attenti alle parole, all’esporre i piccoli ai complimenti o ad altro. Per fortuna che c’è ancora chi ha il potere di toglierlo.
Normalmente è una donna anziana “iniziata” a questo ufficio e gelosa di svelare il potere (l’iniziazione avviene la notte di Natale!). L’interessato “affascinato” deve ricorrere a lei e seguire le indicazioni: deve segnarsi la fronte con sette croci, mentre la guaritrice pronuncia queste parole:
“Chine t’affascinau, ‘u core l’abbundau,
‘u core e lla mente e ll’affascinu u n’è nente!
Thri te ligaru, Thri te sciundiru:
‘u Pathre, ‘u Fhigliualu e llu Spiritu Santu.
S è uaminu mù ammuscula.
si è fhimmina mù cascula”.
Segue la recita del Padre nostro, dell’Ave Maria e del Gloria…
Se la guaritrice sbadiglia durante la recita del Padre nostro, il malato è stato affascinato da un uomo; se invece sbadiglia durante la recita dell’Ave Maria è stato affascinato da una donna.
(Tutti i testi di Miglierinesità sono tratti dal libro “Miglierina un paese due campanili” di Antonio Caccetta)